Carenza dei controlli, limiti dell’import, normativa carente: le criticità per combattere la tossicità dei capi di abbigliamento
Quello della sicurezza dei capi di abbigliamento è un problema che le associazioni ambientaliste e quelle dei consumatori denunciano da tempo senza trovare adeguato ascolto, salvo che in occasione di eventi eclatanti come il ritiro di pigiami per bambini risultati tossici o i risultati dei test che nel 2013 dimostrarono la presenza nelle parti in pelliccia di alcuni piumini e cappottini per i più piccoli di sostanze vietate. La verità è che le leggi nel settore tessile sono obsolete e carenti. Oltre che frammentate: tanti singoli provvedimenti per un numero ristretto di sostanze potenzialmente tossiche, non compendiati in un testo unico nemmeno a livello europeo. Da noi i controlli da parte di Nas, Asl e ministero della Salute avvengono sempre a posteriori, cioè solo se è il cittadino a segnalare il caso, presumibilmente dopo averne già subito le conseguenze sulla propria pelle in termini di reazioni allergiche ad esempio. E nemmeno il marchio “made in Italy” è di per sé garanzia di qualità, dal momento che include prodotti confezionati in Italia ma con tessuti importanti dalla Cina o da altri Paesi extraeuropei.
I controlli sono sicuramente molto limitati rispetto alla mole di articoli circolanti, ma sono anche gli unici che vengono fatti in Italia. Da noi il riferimento normativo generico è il Codice del Consumo, che vieta di immettere in commercio un articolo se pericoloso. Ma non fornisce indicazioni né alle aziende né a chi deve fare i le verifiche. Anche il regolamento europeo Reach che stabilisce i criteri per l’uso delle sostanze chimiche nell’Unione Europea ha maglie estremamente larghe per quanto riguarda le restrizioni alla presenza di sostanze pericolose negli articoli tessili e calzaturieri.
Proprio a causa del vuoto normativo è stata pubblicata nel 2010 la norma Uni/Tr 11359 sulla gestione della sicurezza degli articoli di abbigliamento che, al momento, è l’unico documento normativo sistematico sulla materia. Il problema di fondo è che il mercato europeo in questo settore è ricco di complicazioni nell’export ma risulta totalmente aperto nell’import. In pratica ci arriva di tutto, siamo invasi da capi d’abbigliamento che vengono importati da paesi, come la Cina e l’Est asiatico, in cui l’uso di coloranti e altre sostanze tossiche è ancora diffuso. L’importatore, infatti, non è tenuto a verificare come avviene la produzione o quali sostanze vengono utilizzate. L’unica soluzione per tutelarsi è garantire la completa tracciabilità e trasparenza della filiera e promuovere nel nostro paese una chimica sostenibile.
In mancanza di regole certe, le aziende tessili che hanno più a cuore la salute dei clienti si organizzano da sole. Se grandi gruppi dell’abbigliamento hanno sottoscritto lo standard di Greenpeace, altri, come la grande distribuzione Coop, pretendono che i loro prodotti siano sottoposti a una certificazione volontaria, l’Oeko-Tex, che ha lo scopo di controllare la presenza di sostanze nocive nei tessuti e fornire quindi tramite l’apposito marchio ai consumatori la garanzia che i capi sono stati realizzati secondo criteri ecologici e di prevenzione a tutela del consumatore.
Alla luce di tutto ciò, come difendersi concretamente? In primo luogo leggendo bene le etichette e andando alla ricerca della qualità, che non necessariamente si trova in un prodotto costoso. Premesso che la cosa migliore in assoluto sarebbe comprare meno abbigliamento, l’ideale è un prodotto di fascia media: né griffato, né fast fashion ‘usa e getta’. I capi realizzati in Italia o in Europa, tendenzialmente, sono più sicuri. Altri consigli spiccioli ma utili: evitare, specie per gli indumenti intimi, i colori scuri che possono trasmigrare sulla pelle più facilmente a causa del sudore. Lavare sempre gli abiti appena comprati: spesso hanno fatto lunghi viaggi e sono stati riempiti di antiparassitari. E ovviamente usare detersivi poco aggressivi, possibilmente ecobio.