Newsletter_13 del 17.07.2017
17 Luglio 2017
in | Azione 5 | Progetto 2017
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Sicurezza dei prodotti elettrici
La normativa comunitaria e nazionale tratta i prodotti elettrici di uso domestico da più punti di vista. Il principio ispiratore della normativa è comunque la sicurezza dell’utilizzatore diretto del prodotto e dei terzi cui dall’utilizzo del prodotto, da parte del consumatore, potrebbe derivare un danno.
Tre sono le direttive della Comunità Europea che trattano la sicurezza del prodotti elettrici:
1. Direttiva n. 89/336/CEE, relativa alla compatibilità elettromagnetica;
2. Direttiva n. 73/23/CEE, relativa ai prodotti elettrici a bassa tensione, abrogata dalla Direttiva n. 2006/95/CEE;
3. Direttiva n. 92/75/CEE, relativa alla etichettatura energetica degli apparecchi di uso domestico.
La direttiva sulla compatibilità elettromagnetica (direttiva 89/336/UE)
copre elettrodomestici, trasmettitori radio e televisivi, apparecchiature radiomobili, apparecchiature elettromedicali, apparati per illuminazione, lampade fluorescenti, macchine industriali, apparecchiature elettroniche per scopi didattici, apparati della tecnologia dell’informazione, ricetrasmittori CB e LPD, KIT per montaggio fai-dai-te (in quanto il Kit è destinato a essere convertito in apparecchio dall’utente), componenti con funzione intrinseca ai fini dell’utilizzatore finale.
La direttiva sui prodotti elettrici a bassa tensione [Direttiva Bassa Tensione (N. 73/23/CEE, abrogata dalla Direttiva n. 2006/95/CEE) – Attuazione Direttiva (L. N. 791/77)]
concerne il materiale elettrico destinato ad essere utilizzato ad una tensione nominale compresa fra 50 e 1.000 volt in corrente alternata e fra 75 e 1.500 volt in corrente continua.
La Direttiva sull’etichettatura energetica (92/75/CEE)
concerne l’indicazione del consumo di energia e di altre risorse degli apparecchi domestici, mediante etichettatura ed informazioni uniformi relative ai prodotti.
Tale direttiva è stata recepita nel nostro ordinamento col D.P.R. n. 107/1998.
Slow e eco fashion contro la fast fashion
La produzione industriale di abbigliamento e accessori a basso costo si chiama fast fashion. I marchi low cost contemporanei hanno come obiettivo soddisfare i consumatori per un breve periodo offrendo imitazioni delle grandi case di moda a basso costo. Non sono oggetti fatti per durare, si consumano subito e quindi c’è sempre bisogno di novità. Li troviamo nelle più popolari catene di negozi. Le industrie fast fashion sfruttano la scarsa protezione dell’ambiente e il basso costo del lavoro nei paesi come Cina, India, Bangladesh, Pakistan, Filippine o Vietnam.
Lo slow fashion è una controtendenza al fast fashion. Ha come obiettivo educare i consumatori ad acquistare meglio e di meno scegliendo le cose fatte per durare, realizzate da manodopera retribuita equamente e con materiali di qualità, possibilmente ecosostenibili. Lo slow fashion è nato dalla presa di coscienza che sul lungo periodo il fast fashion è insostenibile sia per l’ambiente sia per la manodopera che lavora alla sua produzione.
Con il termine eco fashion si definisce la filiera di produzione di abbigliamento e accessori con una particolare attenzione all’ambiente. Sono oggetti prodotti rispettando la natura, limitando l’inquinamento e diminuendo la quantità di scarti e rifiuti. Gli standard etici devono essere rispettati lungo tutta la catena di produzione. Spesso vanno applicati anche i sistemi di riciclo e riutilizzo di materiali. Tanti negozi offrono i buoni in cambio di vestiti, cosmetici o altri oggetti ormai inutilizzabili.
“Realizzato nell’ambito del Programma generale d’intervento della Regione Emilia Romagna con l’utilizzo dei fondi del Ministero dello Sviluppo Economico. Ripartizione 2015”