I problemi dell’allevamento italiano all’indomani del PAC
Abbiamo spesso sottolineato quanto i diversi settori possano fare di più in ambito sostenibile. La conferma di questa necessità oggi viene evidenziata da uno studio dell’Università della Tuscia, che svela per la prima volta il peso ecologico degli allevamenti intensivi e agricoltura: secondo i dati infatti, queste due tipologie stanno consumando una volta e mezza le risorse naturali dei terreni agricoli italiani. Un dato in forte contrasto con la direzione presa dall’Unione Europea: nei prossimi giorni infatti è prevista una riforma del PAC, la Politica Agricola Comune ai paesi dell’Unione. L’europarlamento voterà se dare un’impronta green ai finanziamenti pubblici ad agricoltura e allevamenti o mantenere il sistema produttivo attuale a favore di allevamenti intensivi e produzione di mangimi. Si tratta di decidere la destinazione del 38% del budget dell’Unione Europea, quindi cifre considerevoli, e uno dei cambiamenti più discussi è, per l’appunto, passare questi fondi a una riconversione ecologica del settore dell’allevamento, invece che mantenerli per l’allevamento intensivo. Alla luce della situazione, lo studio evidenzia una realtà impietosa per i settori italiani. Nel nostro paese, secondo i dati raccolti, il sistema agricolo e quello zootecnico sono letteralmente insostenibili per le nostre risorse naturali; l’impatto ambientale dei due settori, così come sono adesso, è pari a una volta e mezza le risorse naturali messe a disposizione dai terreni agricoli italiani, con gli allevamenti intensivi che utilizzano il 39% delle risorse agricole italiane. Il dato peggiore viene dalla Lombardia dove la zootecnia sta divorando il 140% della biocapacità agricola della regione. Una battaglia, quella per la sostenibilità degli allevamenti lombardi, persa in partenza, visto che la regione dovrebbe avere una superficie agricola di quasi una volta e mezzo quella attuale per assorbire le sole emissioni degli animali allevati sul suo territorio. Oltre al caso limite della Lombardia spiccano le alte percentuali di Veneto (64%), Piemonte (56%) ed Emilia-Romagna (44%). Qui le cifre sono solo all’apparenza più contenute: l’impatto risulta inferiore solo perché la superficie agricola è molto estesa. Da notare che più della metà dell’impronta ecologica del settore zootecnico dipende quindi dalle regioni del Bacino Padano. Dando uno sguardo al sud, prima per consumo tra le regioni del Mezzogiorno è la Campania (52%).
Tra le soluzioni per limitare i danni di un settore che si sta mangiando, nel vero senso della parola, le risorse del territorio, la prima e paradossalmente più difficile è cambiare lo stile di vita degli italiani. Questo indispensabile cambiamento di sistema l’Europa lo ha deciso attraverso la Long term strategy, il piano strategico che ciascuno degli Stati membri è tenuto a sviluppare per illustrare i propri interventi in merito alla riduzione di emissioni di gas serra entro il 2050. Piano che, per quanto riguarda l’Italia, non è ancora stato presentato.
Quello che lo Stato italiano può e deve fare è creare un processo da assecondare con politiche coerenti senza perdere di vista la tutela del reddito degli allevatori ma senza dimenticare il lato sostenibile: lavorare per ridurre le emissioni di ammoniaca, sostenendo il miglioramento genetico, l’introduzione delle tecniche dell’agricoltura e dell’allevamento di precisione, migliorando l’assistenza tecnica e la formazione dei nostri allevatori. Va detto che le tecnologie e le strategie di miglioramento delle prestazioni ambientali degli allevamenti esistono. La strada non è solo ridurre la produzione, piuttosto produrre meglio e in modo più efficiente, inquinando meno e consumando meno risorse, valorizzando la capacità di assorbimento della CO2 atmosferica e sfruttando la possibilità di produrre energia in sostituzione di quella da combustibili fossili, la vera fonte di aumento della CO2 in atmosfera.