Allevamenti Intensivi: fermiamo l’arma di (auto) distruzione di massa
L’allarme, l’ennesimo, viene stavolta dall’Università della Tuscia e da Greenpeace Italia. Perentorio e urgente, inevitabile e inequivocabile: gli allevamenti intensivi, in Italia, consumano praticamente una volta e mezzo le risorse naturali che i nostri terreni agricoli hanno a disposizione.
È una questione innanzitutto di puri dati numerici: utilizzando come indicatore l’”impronta biologica”, ovvero il rapporto dell’impatto di un settore e la capacitò del territorio, scopriamo come il peso dei soli allevamenti intensivi è pari al 39% delle risorse agricole italiane. Il dato ancor più allarmante è che questa percentuale tende a considerare unicamente la produzione di gas serra derivante dal processo digestivo dei ruminanti, mentre non sono state considerate ai fini del calcolo anche altre fasi della filiera (come la produzione di mangimi o il trasporto, specie su gomma), che andrebbero a gonfiare considerevolmente il dato precedente.
A riprova della necessità di contromisure, si sta attivando in queste ore anche la poderosa macchina comunitaria, che tramite riunione del Parlamento Europeo toccherà tematiche importanti della PAC (Politica Agricola Comune), tra cui, finalmente, il taglio ai fondi degli allevamenti intensivi che ancora tarda ad arrivare. E per l’Italia, questo, è argomento spinoso.
Ma andiamo con ordine: il diktat europeo impone di misurare l’impatto che, sul territorio, producono le deiezioni animali; sia a livello di nitrati rilasciati, che di potenziali contaminazioni di falde acquifere, nonché di livello di azoto nei terreni.
La maggior parte degli allevamenti intensivi della nostra penisola è sita nella zona della Pianura Padana e, in particolare, in Lombardia: basti pensare che l’associazione EssereAnimali ha segnalato, a seguito di un censimento della provincia di Brescia, che a fronte di 1.262.678 individui presenti nell’area, il numero di capi di bestiame suini allevati sullo stesso territorio provinciale è più alto di oltre 20.000 unità. Un surplus inutile di risorse, di inquinamento e di inutile sofferenza animale.
Molte attività del settore primario in tutto il continente hanno dovuto sostenere ingenti spese per assicurarsi misure adatte allo spandimento sostenibile di deiezioni animali, ed il PAC è intervenuto in loro sostegno, a suon di milioni di euro. Emblematico è però che molti di questi fondi, destinati al sostegno dell’ecosostenibilità, siano andati invece ad aziende di allevamento situate in comuni a rischio ambientale per eccessivo carico di azoto e nitrati (alcuni l’80% oltre la soglia consentita), procurato principalmente proprio dalla presenza delle attività zootecniche stesse. Questi Comuni, siti in tutta la Lombardia, hanno incassato 120 milioni di euro di fondi pubblici, con cui prevedono dichiaratamente di incrementare la produttività. La risultante è che l’Italia si trova sotto procedura di infrazione da parte della Commissione Europea (n.2018/2249).
I furbetti degli allevamenti però, ad oggi, costano molto di più ai consumatori. Sempre in Lombardia, gli allevamenti intensivi danno fondo al 140% delle risorse agricole prodotte: tradotto, significa che per soddisfare il fabbisogno della zootecnia, la regione necessiterebbe di investire le risorse non di un territorio di oltre 23.000 km come quello a disposizione, bensì di circa 12.000 metri quadrati in più. Per dare un’idea, la regione dovrebbe essere grande quanto l’unione di Lombardia, Valle d’Aosta, Molise e Liguria. O di quasi tutta la superficie del Trentino-Alto Adige. Numeri spropositati, ma che possono anche essere letti in chiave ancora più oscura: una ricerca condotta pochi mesi fa dalla Harvard Huniversity (“Fine particulate matter and COVID-19 mortality in the United States”) evidenzia come il tasso di mortalità della pandemia in corso, sia più ingente in territori con alto tasso di polveri sottili e smog. Entrambe, ovviamente, prodotte in larga parte dagli allevamenti intensivi.
Un dato quindi dalla facile interpretazione, almeno teoricamente, ma che all’atto pratico viene completamente – o quasi – ignorato: il dossier “2010-2019. Dieci anni di zootecnia in Italia” dimostra come lo scorso decennio abbia visto una significativa decrescita del 7% del consumo pro capite di carne, trend seguito anche dalla produzione interna e dall’importazione, ma nonostante questo il numero totale dei capi di bestiame di allevamento abbattuti è stato registrato in aumento.
Un dato allarmante di primo acchito, ma va analizzato comprendendo come le abitudini dei consumatori stiano cambiando, per fortuna in positivo.
I dati Istat relativi al primo trimestre 2020, infatti, mostrano come siano cresciuti i consumi relativi alle carni bianche (specie di pollame e derivati) durante il lockdown, a fronte però di un drastico calo di macellazioni di grande e media taglia (tra il 15 e il 20% in meno quelle di maiali e bovini). Effetto della pandemia o sviluppo di coscienza civile? Da quanto afferma “The World after Lockdown”, osservatorio condotto da Nomisma, più che il mancato potere di acquisto, è sensibilità consumistica ad orientare i nostri consumi. Sostenibilità, filiera, salute, sicurezza, origine del prodotto, assenza di ogm, stagionalità: queste sono le caratteristiche che gli italiani ricercano nei prodotti e le proteine animali vengono adesso assunte con una ragionevolezza che ci aspettiamo anche nelle istituzioni.
Fermare gli allevamenti intensivi è un dovere che non possiamo rimandare più. Finché siamo in tempo.