Banche italiane in crisi: come si arriva alle perdite
Per parlare dello stato di salute delle banche italiane non si può non partire dalla crisi finanziaria del 2008. Un evento che cambiato il corso della storia per le economie dei Paesi occidentali. Una crisi che ha avuto come epicentro proprio le banche. Il sistema finanziario globale è finito al collasso per colpa dell’eccessivo impiego di strumenti complessi e speculativi come i derivati e l’elevato volume di crediti concessi dalla banche anche a chi non sarebbe stato in grado di rimborsarli in futuro.
I famigerati mutui subprime o mutui ninja (no income no jobs) erano infatti concessi per l’acquisto della casa anche a famiglie senza redditi (income) e senza lavoro (jobs).
Questo terremoto ha lasciato relativamente indenni le banche italiane tradizionalmente meno speculative. Quando però la crisi si è trasferita ai debiti pubblici anche loro hanno sofferto. Tra il 2010 e il 2012 il mercato ha iniziato a temere che l’Italia non fosse più capace di rimborsare il suo debito pubblico. Questa crisi di sfiducia ha finito col travolgere anche chi, di questo immenso debito, è il principale acquirente: le banche italiane appunto.
Il timore che l’Italia e le sue banche fallissero ha fatto schizzare ai massimi i tassi di interesse a cui lo Stato e gli istituti di credito si finanziano sul mercato. Questi ultimi a loro volta hanno scaricato questi costi sui loro clienti. I prestiti a famiglie e imprese sono diventa-ti più onerosi e il meccanismo del credito all’economia reale si è inceppato dando vita a quello che gli addetti ai lavori chiamano un «credit crunch», una stretta creditizia. In un’economia come quella italiana, che è fondata sul credito bancario, ciò è stato indubbiamente uno dei fattori che ha contribuito maggior-mente ad alimentare la peggiore recessione dal dopo-guerra. Una crisi epocale che ha visto il Pil crollare del 10%; la produzione industriale del 25% e una miriade di imprese andare in fallimento. Con il crollo del Pil (cioè della ricchezza prodotta ogni anno dall’economia) e l’impennata della disoccupazione sempre più famiglie e imprese in tutta Italia si sono trovate in difficoltà a far fronte ai debiti contratti con le banche per comprare banche o finanziare l’acquisto di macchinari. Il problema dei debitori (famiglie e imprese) si è trasformato in un problema dei creditori (cioè le banche) man mano che i presti-ti non onorati (i cosiddetti «crediti deteriorati») crescevano nel loro bilancio. Quella dei prestiti malati è stata una mina a scoppio ritardato. Non è esplosa negli anni più duri della recessione (2011-2012) ma successivamente. Nell’anno più critico, il 2015, l’incidenza dei crediti deteriorati sul totale dei prestiti è arrivata fino al 22%. Come dire che un prestito su cinque era «malato».
L’aumento esponenziale dei prestiti inesigibili ha costretto le banche a prendere le adeguate contromisure. Le ha costrette ad esempio ad accantonare riserve per far fronte ad eventuali perdite. Oppure a fare svalutazioni. Cioè dichiarare a bilancio che dei 200 mila euro prestati al signor Rossi per comprare la casa e su cui le rate non sono state onorate si conta di recuperare 100 mila. Ad esempio pignorando e mettendo all’asta l’immobile. Svalutare significa mettere una pietra sopra quel prestito accettando di andare incontro a una perdita. Le perdite che si accumulano magari anno dopo anno finiscono per portare il patrimonio a livelli da non garantire più la solidità della banca. Ecco che, per rimediare, occorre riportare il patrimonio sopra determinati parametri indicati dalle autorità. Per fare questo si fa un aumento di capitale. Cioè si chiede soldi al mercato emettendo nuove azioni. Secondo una stima che Il Sole 24 Ore ha fatto su dati S&P Market Intelligence dal 2011 ad oggi sono stati fatti aumenti di capitale per oltre 45 miliardi di euro.