Crisi bancarie: aumenti di capitale, bail-in e grado di rischio
Con l’entrata in vigore della direttiva comunitaria BRRD si è introdotto il principio che lo Stato non debba farsi più carico del salvataggio di un istituto di credito in crisi pagando con i soldi dei contribuenti gli errori dei banchieri. Se una banca fallisce ad essere chiamati in causa sono in primo luogo gli azionisti e in secondo luogo i creditori a seconda del privilegio.
Prima i possessori di titoli di debito subordinati, poi quelli che hanno bond senior e così via fino ad arrivare ai correntisti con depositi superiori ai 100mila euro. Al «bail-out» (salvataggio dall’esterno) si è contrapposto il «bail-in» (salvataggio dall’interno). Tra il bianco e il nero ci sono comunque molte sfumature di grigio e il fallimento di un aumento di capitale non significa automaticamente che debitori e correntisti debbano intervenire per salvare la banca. Tra il «bail-out» e il «bail-in» la normativa prevede una terza via: la ricapitalizzazione precauzionale ad opera dello Stato. Di fatto una nazionalizzazione che può essere fatta solo se alcune condizioni sono rispettate: ad esempio se l’istituto è solvibile (cioè è in grado di affrontare situazioni di stress) o se c’è un rischio per la stabilità finanziaria del Paese ecc. Lo Stato italiano, che negli ultimi giorni del 2016 ha stanziato 20 miliardi di euro per decreto, è entrato nel capitale del Monte dei Paschi di Siena e potrebbe entrare in Veneto e Vicenza. Questa operazione prevede comunque una parte di condivisione del rischio da parte dei creditori dell’istituto attraverso, per esempio, la conversione in azioni del debito subordinato. Nel caso in cui questo debito sia stato venduto in maniera non trasparente è possibile una forma di rimborso che varia da caso a caso. Ci sono due indicatori per valutare il grado di rischio di una banca. In generale i crediti malati non dovrebbero mai superare come valore a bilancio il livello del capitale. Più è alto questo rapporto, cioè le sofferenze superano il capitale più la banca rischia. Ovviamente più il rapporto tra sofferenze e capitale si riduce sotto il 100%, più la banca è da considerarsi virtuosa. Perché avere sofferenze che non superano il patrimonio è importante, anche in prospettiva? Perché, come si è visto, quei crediti che non rientreranno in banca vanno mano a mano rettificati di valore. Cioè andranno svalutati. Il peso di quelle svalutazioni impatterà sul conto economico producendo quelle perdite di cui abbiamo parlato che di riflesso limano mano a mano il capitale. È quindi evidente che una banca che ha sofferenze molto alte, andrà incontro a perdite sostanziose. Si può anzi si deve a questo punto ripristinare il capitale. Cioè ai soci viene chiesto di iniettare nuovo denaro nella propria banca. Ma se le sofferenze continuano ad aumentare come è accaduto negli ultimi anni, quello sforzo di aggiungere nuovo capitale rischia di essere vanificato già l’anno successivo. Una sorta di spirale perversa.
La crisi e l’entrata in vigore delle nuove normative ha modificato in maniera so-stanziale la realtà del risparmio bancario. È anche vero che finora non c’è stata alcuna crisi talmente grave da coinvolgere l’anello più debole della catena: i correntisti. I depositi (sia quelli degli istituti più solidi, sia quelli degli istituti più fragili) sono tutti coperti dalla garanzia del fondo interbancario che tutela le somme depositate fino all’ammontare di 100mila euro. Alla luce di questa considerazione chi è intenzionato a spostare il conto da una banca ad un’altra deve fare un’attenta analisi costi-benefici e rischio-rendimento. Anche tenendo conto del fatto che un istituto in difficoltà ha maggiore interesse a tenersi i clienti offrendo loro ad esempio remunerazioni più interessanti su prodotti come i conti di deposito. Se si ha un conto in una banca «a rischio» bisogna in primo luogo accertarsi che questo rischio sia ben remunerato. In caso contrario meglio cambiare.