Digitalizzazione delle utenze, fra Smart-house e privacy, i rischi per i consumatori
La tecnologia sta prendendo sempre più piede nelle abitudini degli italiani. Dagli acquisti on-line allo SPID, la tecnologia è sempre presente nelle nostre case anche con la domotica, ovvero la casa “intelligente” (smart house per chi preferisce gli inglesismi).
Grazie a internet infatti abbiamo assistenti virtuali (alexa o cortana) e programmi comodamente inseriti nel nostro cellulare: dal televisore al frigorifero, dal campanello al microonde, quasi tutti gli oggetti di uso quotidiano possono venire connessi ad internet aprendo nuovi orizzonti e criticità. Ma, come sempre, il passaggio dall’analogico al digitale ci pone davanti a problematiche legate alla privacy e alla sicurezza informatica.
Come tutti i dispositivi e le linee ad essi connessi infatti, non sono immuni da tentativi di manomissione o hackeraggio, cosa che mette a rischio la privacy dei consumatori. Inoltre, spesso, quale punto principale del concetto dell’”Internet delle Cose”, i vari oggetti “intelligenti” sono interconnessi e dialogano tra di loro, creando una sorta di “ecosistema digitale”. Questa interconnessione apre nuove frontiere a potenziali criticità che, partendo da un singolo oggetto connesso, si espandono velocemente a tutti gli altri membri di tale ecosistema, con risultati a volte catastrofici.
Cosa succede se, ad esempio, qualcuno riesce a infiltrarsi nella nostra connessione ed avere accesso alle nostre telecamere di sicurezza? O al nostro antifurto? Il problema è tanto nuovo quanto serio e si va a inserire nella già ampliamente dibattuta tematica dei dati personali in rete, del loro uso (spesso fumoso da parte delle piattaforme e dei social network) e dei cambiamenti legislativi che dovrebbero aggiornare la materia.
Uno dei casi più eclatanti nell’ultimo periodo è quello della società “Ring”, che offre citofoni e telecamere connessi ad internet. L’idea, come tutti gli apparati nella domotica, è quella di avere la possibilità di riuscire a vedere e a parlare tramite un’applicazione sul cellulare attraverso il citofono o la telecamera. Oggi è al centro di una class action negli Stati Uniti, il motivo? Alcuni malintenzionati erano riusciti ad accedere agli altoparlanti e alle telecamere e riuscivano a tormentare le proprie vittime con minacce di morte, epiteti razzisti e, in un caso in cui l’assistente virtuale e una delle telecamere erano installate nella cameretta di una bambina di otto anni, tentativi di circuire una minorenne.
La società si è difesa affermando che tali violazioni fossero avvenute per causa imputabile, in via esclusiva, ai consumatori in quanto, questi, avrebbero utilizzato password deboli, non avendo, inoltre, essi attivato l’autenticazione a due fattori per l’accesso. Il fatto che ci sia ancora una larga ignoranza sui procedimenti di sicurezza in rete e le buone abitudini da mantenere per evitare questi incidenti non è mai abbastanza sottolineato (in primis dalle agenzie o piattaforme che in realtà dovrebbero avvisare l’utente), ma è anche vero che spetta al produttore (o fornitore del servizio) garantire e mantenere costantemente aggiornato il perimetro di difesa informatica dei propri prodotti, tenendo anche in considerazione gli aspetti della protezione dei dati personali, ad esempio sviluppando i propri prodotti in ossequio al principio della “Privacy by Design” ex art. 25 del GDPR.
Serve insomma da un lato maggior cultura, ma dall’altro, e preme sottolinearlo, occorre che ci sia un maggior sforzo per la protezione dei dati, un regolamento cristallino e un’esposizione al consumatore dei rischi e pericoli e di come fare per evitarli. Cosa che, spiace doverlo dire ancora una volta, accade raramente.