Il diktat dell’Unione Europea: guerra alla plastica monouso, anche se biodegradabile
In un primo momento, la stretta dell’Unione Europea per un’economia più sostenibile sembrava dovesse riguardare solamente la plastica: la Direttiva SUP (Single Use Plastic, UE 2019/904) del 2019, da rendere operativa entro quest’anno negli stati membri, imponeva norme di limitazione per prodotti e imballaggi di fin troppo facile reperimento sulle spiagge europee in veste di rifiuti. Così come dalla decisione di varare una plastic tax che entrasse in vigore da Gennaio 2021, sembrava venisse risparmiata la categoria dei prodotti monouso biodegradabili. Si riteneva, anzi, che tale tassa fosse stata studiata anche per incentivarne il consumo in qualità di prodotto con ridotto impatto ecologico. Chi aveva tirato un sospiro di sollievo, per intenderci, erano stati i produttori dei classici piattini di carta “da festa”.
A quanto sembra però, fra pochi giorni questo scenario sarà destinato a cambiare drasticamente. Per giorni, infatti, si sono rincorse voci di una messa al bando non solo dei prodotti in pura plastica, ma anche di tutti quelli che sono costituiti da percentuali minime di polimeri non biodegradabili. E proprio una manciata di giorni fa (il 25 gennaio) il diktat è arrivato: anche le stoviglie di carta, in quanto non riciclabili al 100%, devono essere messe al bando.
La causa è semplice: il film che riveste piatti di plastica e similari, al fine di renderli impermeabili, ne ostacola la completa biodegradazione in ambienti marini, contribuendo quindi alla diffusione negli stessi di sostanze microplastiche nocive all’ambiente e alla catena alimentare.
Il sospiro di sollievo di cui sopra, si è inevitabilmente trasformato in ira rivolta alle istituzioni europee, in un coro capitanato da Eppa (European Paper Packaging Alliance, letteralmente “l’alleanza europea per gli imballaggi di carta): il presidente dell’associazione ha infatti denunciato come le stoviglie che l’UE vuole vietare “siano prodotti al 90% costituti da fibra, da carta” e che “contengano percentuali marginali di plastica[…] di 0,5 grammi”.
Addirittura, l’EPPA fa notare come l’impatto ambientale degli imballaggi di carta sia assolutamente minore sull’ecosistema, tanto rispetto ai prodotti in plastica quanto a quelli riutilizzabili: questi ultimi infatti, come indicato dallo studio di Ramboll Group A/S (importante azienda di consulenza sita in Danimarca), sembrano essere responsabili del 177% in più di emissioni nocive di CO2, nonché di uno spreco di acqua superiore a oltre il 260% e della produzione del 132% circa di particolato fine rispetto al packaging cartaceo.
Numeri da capogiro, ma non sono gli unici che devono essere presi in considerazione. Le attività cubate dalla Packaging Alliance europea sono mostri di fatturato: si stimano 300 miliardi di ricavi solamente da parte del mondo del food, e che l’indotto generato da queste attività dia lavoro a oltre 25 milioni di cittadini-consumatori europei. Buona parte di questi ricavi e di questi lavoratori, per giunta, si trovano in Italia, che nel 2018 è stata la principale produttrice europea di stoviglie monouso per la tavola e la cucina (parliamo di quasi un 30% della produzione continentale).
Economia circolare e politiche green sono fondamentali, ma serve giudizio. È la strategia industriale il vero spartiacque fra aziende legate a vecchi schemi di mercato e produzione (destinate, speriamo, a ridursi sempre più di numero), e chi invece deciderà di abbracciare le linee guida UE e la sfida per diminuire la quantità di rifiuti prodotta dalla filiera. In questo senso, acquisisce un ruolo doppiamente fondamentale quello delle bioplastiche e delle nuove frontiere del biodegradabile.
Gli ultimi assist ci vengono offerti dall’est: è notizia degli ultimi giorni infatti, che la Russia stia implementando le strutture per produrre piatti biodegradabili in cellulosa di canapa. L’obiettivo prefissato è quello di, a fronte di un investimento da 2 miliardi di rubli, produrre potenzialmente 4000 tonnellate di cellulosa l’anno, per cominciare. Le stoviglie con essa create potrebbero biodegradarsi autonomamente nel giro di tre mesi massimo, ma anche in poche settimane in realtà, e conserverebbero intatte le loro composizioni molecolari, nonché i cibi che dovrebbero contenere, tanto a temperature da freezer quanto a sollecitazioni come quelle del microonde, senza contaminazione alcuna. Nessun composto nocivo sarebbe disperso in fase di recupero, i piatti prodotti sarebbero molto resistenti e leggeri, e la canapa, da sempre grande assorbitore di CO2, contribuirebbe notevolmente anche alla qualità e alla pulizia dell’aria.
Alternativa, ma non meno importante, è invece la sfida della Thailandia: paese grande, pieno di contraddizioni, in cui sfarzo e povertà sono spesso penetrati l’uno nell’altra, ma con un’innegabile ricchezza: il riso. Si è stimato che nello scorso biennio, nella penisola thailandese si siano prodotti tra i 27 e i 28 milioni di tonnellate del suddetto cereale. Attraverso l’essicazione del culmo (ovvero la parte centrale del fusto, uno scarto della raccolta), e la sua completa maturazione, si ottiene la cosiddetta paglia di riso, un componente utilissimo per gli imballaggi, i quaderni, e tanti altri prodotti, oltre ovviamente alle stoviglie e ai bicchieri.
Dunque, più che incatenare un settore florido, in crescita e non eccessivamente dannoso per il pianeta (non più di altri, anzi, forse fra i meno), probabilmente la vera risposta agli obiettivi green dell’UE sarebbe proprio incentivare la riconversione degli attuali stabilimenti sulla base di politiche ragionate e di investimenti mirati all’ecosostenibilità. Ci riusciremo?
Parola, intanto, alle istituzioni europee