L’OBSOLESCENZA PROGRAMMATA, QUANDO LA ROTTURA è INEVITABILE (A MENO CHE…)
L’avessimo saputo, ai tempi.
A fine millennio, agli albori dell’interconnessione sempre più salda fra l’uomo e il device, cominciò a trapelare la paura di un temibile – in quanto inedito – “male tecnologico”: il cosiddetto “Millennium Bug” avrebbe portato, allo scoccare della mezzanotte del 1° gennaio 2000, il tilt di buona parte della tecnologia dell’epoca. Dicevano…
Nessuno si accorse che un vero e proprio male tecnologico già esisteva, da quasi un secolo per giunta, con un nome più sinistro di quello attribuito al fantomatico baco del millennio: obsolescenza programmata.
Nel 1923 i venditori di lampadine negli Stati Uniti, riuniti in un unico cartello (denominato Phoebus), decisero di dimezzare la resistenza del loro prodotto, portando il ciclo di vita di una lampadina da 2500 a 1000 ore circa. Questo stratagemma permise ad un settore, in surplus di offerta ma costante nella domanda, di rilanciarsi a livello produttivo ed economico. Ecco spiegata, nel suo senso più “crudamente” capitalistico, cosa l’obsolescenza programmata sia e quanto il consumatore ne sia vittima suo malgrado.
Oggi il nostro ordinamento giuridico, con l’articolo 103, comma 1, lettera d) del codice del consumo, di cui al decreto legislativo n. 206 del 2005, identifica come contraente un reato di obsolescenza, chiunque “nella fase di progettazione di un bene di consumo, volutamente accorcia la vita o l’uso potenziale del medesimo bene, al fine di aumentarne il tasso di sostituzione”. Ma come si può riconoscere realmente una banale rottura di una componentistica, spesso delicata e di dimensioni esigue, rispetto ad un caso di “omicidio premeditato” di un bene acquistato? Non così facilmente, purtroppo.
Un conto sono gli ormai celebri casi di Samsung e Apple, multate dall’AGCM rispettivamente per 5 e 10 milioni nel 2018 a causa di un firmware che ha portato “gravi disfunzioni e ridotto in modo significativo le prestazioni […] accelerando il processo di sostituzione“ degli smartphone da loro fabbricati, un altro conto è invece riconoscere l’erosione di una cinghia del frigorifero, appositamente esposta a fonti di calore eccessive, per consumarsi dopo giusto un paio d’anni (o comunque a fine garanzia!), o la presenza di una giuntura non avvitata bene, che crea spesso e volentieri un danno irreparabile al macchinario il quale andrà facilmente ricomprato.
E perché non sostituito? Molto semplice: l’industria che si occupa della produzione di beni di consumo è in costante aggiornamento.
“Nuovi modelli…” di qualsiasi cosa vengono creati a intervalli brevi e regolari, in una folle quanto ciclica corsa al consumo che richiama folte pletore di acquirenti da un lato, mentre dall’altro rende il vecchio device sempre più vetusto, indesiderabile, fuori mercato. Ovvero, fuori produzione.
Il consumatore quindi si ritrova facilmente impossibilitato, nell’arco di 16/18 mesi, a provvedere alla riparazione o alla sostituzione di pezzi non più commerciati dalla casa madre, e con un dispositivo non riparabile in mano (un nuovo rifiuto sostanzialmente!) dal difficile smaltimento e dal grande impatto ambientale.
Le istituzioni, a partire da quelle europee, stanno trasversalmente affrontando l’annosa questione. Ma anche il consumatore ha delle armi per sfuggire alla trappola dell’obsolescenza programmata, rispettando alcune semplici accortezze:
1) Recensioni e controllo del prezzo
Comprare un oggetto al momento della sua emissione sul mercato può essere sfizioso. Spesso però questo comporta la possibilità di incappare in una partita di merce più facilmente difettosa delle sue successive, che anzi verranno appositamente “corrette” sulla base dei primi feedback degli acquirenti (accadde ad una nota marca di console elettroniche, nel 2007). Sempre meglio acquistare un prodotto che, nel medio – breve periodo, sia stato ritenuto affidabile da altri consumatori come noi. E, a proposito di tempo, spesso il mantenersi costante del prezzo di un bene può starne a significare la validità, così come la svalutazione sul mercato può essere indice di obsolescenza.
2) Riparare è meglio che buttare!
Non importa che si tratti di un indumento strappato o di un telefono caduto in acqua: una strada alternativa all’usa e getta può e deve essere la riparazione di un oggetto; nel caso in cui non si disponga di garanzia, anche tentando la possibilità del tutorial o della guida online. Alcuni dei problemi in cui i nostri beni di consumo possono incorrere sono, infatti, più facili da risolvere di quanto crediamo. Altrimenti, in ogni città sono in costante aumento sartorie, negozi di piccole e medie riparazioni di elettronica, e addirittura… Repair Cafè! Parliamo di luoghi di ritrovo, diffusi in tutta Europa e ultimamente anche in Italia, in cui volontari sono a disposizione non solo per tentare di risolvere problemi di natura riparatoria, ma anche per trasmettere le proprie conoscenze al consumatore, il quale potrebbe procedere autonomamente nel caso in cui il problema si ripresentasse in futuro.
3) L’importanza delle associazioni
Ci sono casi in cui la riparazione non è possibile, ma l’obsolescenza programmata è evidente. È possibile, da associazioni nate appositamente per la difesa dei consumatori, trovare supporto e assistenza, di tipo legale e non solo. Va segnalato in questo senso il progetto PROMPT, nato da un’iniziativa online, in cui segnalare beni che siano diventati inutilizzabili troppo presto, inserendo le particolarità del malfunzionamento e i dati del prodotto. Tramite questi risultati, si spera sia di creare solidarietà sociale fra consumatori, ma soprattutto sensibilizzare le aziende a mettere in commercio prodotti più sostenibili.