Made in colours, un sistema per identificare gli agenti utilizzati nella colorazione dei capi di abbigliamento
Molti capi di abbigliamento contengono sostanze chimiche a rischio. Ne fanno uso anche i grandi marchi. Solo in Italia l’8% delle patologie dermatologiche sono dovute al contatto con i vestiti. Il progetto “Made in colours” mira a inserire nell’etichetta un codice a barre che certifichi gli agenti utilizzati nella colorazione. Se vogliamo sapere in anticipo quale colore andrà di moda nelle prossime collezioni estive, ci basta osservare la colorazione dei fiumi cinesi, come denuncia da tempo l’associazione Greenpeace. Le grandi aziende, infatti, utilizzano nella fase di produzione e di lavaggio dei loro capi sostanze tossiche che vengono scaricate nell’ambiente. Non è un problema che riguarda solo Paesi lontani come Cina, Bangladesh, Vietnam o Messico, dove sorgono gli stabilimenti dei brand più famosi: i residui industriali contaminano le acque e i pesci che poi ritroviamo sulle nostre tavole. Ma non solo. Tutti i giorni veniamo a contatto con questi agenti chimici attraverso gli abiti che indossiamo.
E’ per questo che Michela Kahlberg, manager che da anni si occupa di coloranti, ha lanciato il progetto “Made in colours” : l’obiettivo è quello di spingere le aziende ad adottare una etichetta con un codice a barre che permetta al consumatore di verificare, tramite una app sul suo cellulare, tutte le sostanze utilizzate. In Europa esiste una normativa, il Reach (Registrazione, valutazione e autorizzazione dei composti chimici), entrata in vigore nel 2007, che vieta l’uso di determinati prodotti chimici.
Ogni azienda europea che produce o importa queste sostanze è tenuta ad effettuarne la registrazione presso l’Agenzia europea delle sostanze chimiche. In questo modo si dovrebbe garantire al consumatore la sicurezza di non indossare capi contaminati. La realtà però è ben diversa. Quando leggiamo sulle etichette “made in Italy” non abbiamo la certezza che il prodotto sia stato realizzato interamente nel nostro Paese. Una azienda può fabbricarlo in Cina, dove non ci sono controlli, e poi spedirlo in Italia per gli ultimi ritocchi.
Sono centinaia le sostanze chimiche utilizzate nell’industria tessile per la colorazione, come spiega Chiara Campione, responsabile di Greenpeace: “In questi anni abbiamo analizzato i vestiti e le scarpe delle maggiori aziende mondiali e abbiamo chiesto loro di eliminare subito i composti più pericolosi come i nonilfenoli etossilati (Npe), gli ftalati e gli perfluoroclorurati”. I nonilfenoli etossilati, una volta rilasciati nell’ambiente, non si degradano facilmente, risalgono la catena alimentare fino arrivare all’uomo e possono alterare il nostro sistema ormonale. In Europa il loro utilizzo è vietato per molti prodotti. Gli ftalati sono utilizzati nella pelle artificiale, nella gomma e in alcuni coloranti.
Dal 2011 Greenpeace ha lanciato la campagna Detox per spingere le aziende del tessile a produrre rispettando l’uomo e l’ambiente. L’utilizzo di sostanze tossiche è, infatti, trasversale: dai brand del lusso fino a quelli più accessibili e popolari. I test effettuati da Greenpeace dimostrano che fanno uso di nonilfenoli etossilati marchi come Converse, Ralph Lauren, Calvin Klein, Kappa, Lacoste. Ma sono presenti anche nei vestiti e nelle calzature per bambini firmati Disney, Burberry, Adidas, Puma, Nike, come afferma il rapporto “Piccoli mostri nell’armadio” di Greenpeace Asia (Pdf).
In assenza di etichette che ci diano la certezza che il capo non contenga sostanze dannose, quello che possiamo fare è lavare sempre due volte i vestiti appena acquistati. La maggior parte degli agenti chimici va via con il lavaggio anche se in questo modo si inquinano le nostre acque. Inoltre è consigliabile non acquistare mai abiti in cui non è scritto con quali materiali siano stati realizzati. La mancanza di informazioni indica che il prodotto non è mai stato controllato. Infine, ci si può orientare verso marche che hanno deciso di produrre green.