Sacchetti della spesa: biodegradabili o no? Come riconoscere quelli falsi
La metà dei sacchetti biodegradabili che circolano in Italia sono illegali. A denunciare il fenomeno è Legambiente, con la sua campagna #unsaccobello. Ma cambiare le cose è possibile, denunciando le buste irregolari. Ecco come distinguere i due tipi di sacchetti.
Un’indagine di Legambiente ha fatto luce sulla presenza di sacchetti della spesa illegali in Italia. E’ stata registrata infatti su gran parte del mercato dei sacchetti ecologici, non solamente al Sud,la distribuzione di falsi sacchetti biodegradabili: in realtà si tratta di shopper non a norma e non compostabili. Risultato: la filiera dei veri sacchetti “green” perde circa 160 milioni di euro, cui si aggiungono i danni di 30 milioni di evasione fiscale e 50 milioni di euro per lo smaltimento delle buste fuori legge. L’associazione ambientalista ha prelevato 37 sacchetti per la spesa in diversi punti vendita della grande distribuzione organizzata dislocati in sette diverse regioni della penisola. Di questi, venti buste cioè 54% del totale, sono risultate non conformi alla legge. Ecco com’erano distribuite sul territorio: Campania (7 sacchetti), Basilicata (6), Puglia (3), Calabria (3) e Lazio (1).
Nel nostro paese la vendita dei sacchetti di plastica è vietata dal primo gennaio 2011, ma le prime sanzioni per chi vende o utilizza buste non biodegradabili sono arrivate solo nel 2012 (multe dai 2.500 ai 25.000 euro, che possono raggiungere anche i 100.000 euro se si viene beccati con quantità ingenti di sacchi d’asporto). Nello stesso anno era arrivato anche il primo giro di vite contro le false buste green. Ora l’Ue (direttiva 2015/720) mira a unificare le legislazioni degli Stati membri per mettere del tutto al bando i sacchetti inquinanti. Ma la battaglia è ancora lunga, almeno per l’Italia. Le buste bio ammesse dalla legge devono essere compostabili: cioè convertibili per il 90% in anidride carbonica in soli sei mesi, disintegrabili (frammentandosi e riducendosi al 10% della loro massa), prive di metalli pesanti e in grado di trasformarsi in compost, un fertilizzante naturale simile all’humus.
I sacchetti non a norma sono venduti dai distributori persino online e sono diffusissimi sulle bancarelle dei mercati rionali. Di solito sono costituiti da una termoplastica, il Polietilene ad alta densità, con l’aggiunta di sostanze che ne facilitano la frammentazione da parte di raggi UV e calore. Hanno uno spessore tra i 7 e i 40 micron, e impiegano da un minimo di quindici fino ad un massimo di 1000 anni per dissolversi nell’ambiente. Ognuno di noi ne consuma circa 300 l’anno, pari a circa 4 kg di Polietilene e a 10 kg di CO2 a famiglia necessari a produrli.
Tra Europa e Usa vengono consumati circa 100 miliardi di sacchetti all’anno prodotti usando 910.000 tonnellate di petrolio (oltre a coloranti cancerogeni e additivi metallici), di cui solo l’1% viene riciclato perché il recupero ha costi 4000 volte superiori alla produzione. Vivono poco e di solito sono fotodegradabili: cioè i raggi UV e il calore degradano i sacchetti riducendoli in minuscoli frammenti che possono entrare nella catena alimentare. Secondo l’Unep (Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente) ogni anno uccidono 100.000 mammiferi marini, come tartarughe, balene ma anche molti uccelli di mare per strangolamento, soffocamento o blocchi intestinali. La plastica, trasportata dalle onde, in America ha dato vita a una vera e propria isola d’immondizia. Il “Pacific Trash Vortex”, è un’enorme massa di plastica (estesa tra i 700.000 e i 10 milioni di Km2) che galleggia nell’Oceano Pacifico a Nord delle Hawaii. Rimuoverli da reti da pesca e terreni agricoli è molto più costoso che eliminarli del tutto.
Vediamo come si possono distinguere. I sacchetti monouso conformi alla legge, ammonisce Legambiente, devono riportare:
• la dicitura:“Biodegradabile e compostabile”
• quella riferita alle norme Ue, ovvero “UNI EN 13432:2002”
• il marchio di un ente certificatore, che indica che il prodotto può trasformarsi in compost.
I sacchetti non conformi alla legge, invece, in genere riportano solo la dicitura “Biodegradabile secondo il metodo UNI EN ISO 14855” e i simboli triangolari oppure l’esagono del polietilene, ad alta o bassa densità.
“Realizzato nell’ambito del Programma generale d’intervento della Regione Emilia Romagna con l’utilizzo dei fondi del Ministero dello Sviluppo Economico. Ripartizione 2015”