Shrinkflation: stesso prezzo, prodotto più piccolo

All’inizio era stata Unilever ad aprire le ostilità chiedendo ai supermercati inglesi Tesco di alzare i prezzi per adeguarli al deprezzamento della sterlina dopo la Brexit. Poi il Toblerone si è messo a dieta modificando la forma del tradizionale cioccolato svizzero per ridurre il peso delle confezioni destinate al mercato britannico evitando così di aumentare i listini.
Da allora è stata una vera epidemia di confezioni apparentemente uguali ma in effetti con contenuto di prodotto inferiore in modo da adeguarsi alla scivolata della sterlina in seguito alla decisione di uscire dall’Unione europea. Così PepsiCo ha messo a dieta i pacchetti delle patatine Doritos destinati al mercato inglese calate del 10% a 180 grammi per confezione, mentre Mars ha tagliato il contenuto di M&M e Maltesers e Kellogg’s ha smagrito le scatole di Coco Pops da 800 a 720 grammi.
Sono solo alcuni dei prodotti che hanno consolidato un fenomeno soprannominato “dieta Brexit”, ma che qualcuno ha etichettato come “shrinkflation”, una sorta di “inflazione da restringimento”, perché in effetti i prezzi dei prodotti importati rimangono formalmente invariati di fronte alla svalutazione della sterlina, ma di fatto aumentano dal momento che con la stessa cifra si compra una quantità inferiore del prodotto. Con il risultato di non avere un impatto diretto sull’inflazione. È successo negli ultimi cinque anni a 2500 prodotti nel Regno Unito, secondo quanto pubblicato dall’Ufficio di statistica nazionale inglese. Il fenomeno ha coinvolto cibi come barrette di cioccolato, caffè, tè, succhi di frutta fino ai cereali e alla carta igienica.
Dopo il referendum sulla Brexit dello scorso giugno, i produttori stranieri, soprattutto quelli alimentari del largo consumo, si sono trovati a dover affrontare una contrazione dei margini sulle vendite in Gran Bretagna a causa della perdita di valore della sterlina che ha fatto salire il conto delle materie prime importate.
La prima multinazionale a reagire è stato il colosso del largo consumo Unilever che ha imposto a Tesco un aumento del prezzo del Marmite, una sorta di confettura zuccherina dolce molto diffusa in Gran Bretagna, decisione che ha aperto un duro socntro con la catena di supermercati numero uno nel Regno Unito, che alla fine ha vinto il braccio di ferro.
Dopo questa esperienza, ma anche per evitare aumenti dei listini che avrebbero avuto l’effetto di ridurre i consumi, i big del largo consumo hanno scelto la via alternativa della “shrinkflation”, che porta allo stesso risultato senza rischiare di innervosire i consumatori con aumenti di prezzo.
Ovviamente non tutti lo ammettono e spiegano in altro modo la riduzione del contenuto. Kellogg’s ha giustificato la riduzione del peso con una diminuzione dello zucchero utilizzato nei Coco Pops che ha avuto l’effetto di tagliare il peso. Ma in effetti, sostiene la multinazionale dei cereali, il numero di Coco Pops in ogni confezione sarebbe aumentato.
Il boom della shrinkflation non va neanche attribuito al costo delle materie prime: per fare un esempio, il prezzo europeo d’importazione dello zucchero è calato dalla metà del 2014 raggiungendo un record a marzo 2017. Non è quindi questa la causa. Secondo l’ente britannico, si tratterebbe soltanto di un metodo usato per nascondere un aumento dei costi ai consumatori.
In Italia ad oggi non esiste ancora uno studio in merito ma sarebbe opportuno che Istat e Antitrust comincino ad analizzare tale fenomeno, che causa un danno notevole, sia dal punto di vista economico che di fiducia, al consumatore.
“Realizzato nell’ambito del Programma generale d’intervento della Regione Emilia Romagna con l’utilizzo dei fondi del Ministero dello Sviluppo Economico. Ripartizione 2015”