Truffe nel mondo dei vini: come evitarle
Hanno nomi inglesi e italiani, indirizzi email che sembrano al di sopra di ogni sospetto. Sembrano, appunto.
Sono i nuovi truffatori del mondo del vino, qualche volta pasticcioni o improvvisatori come i “Soliti Ignoti” della commedia all’italiana, qualche volta strutturati, insistenti il giusto, apparentemente senza ombre o macchie sulle loro richieste di preventivi e sui loro, spesso lusinghieri, ordini.
A molti viticultori giungono ormai con buona regolarità mail che invitano all’invio di un listino dettagliato con o senza campioni, a cui fanno seguito ordini generosi. Gli ordini prevedono di norma tempi di pagamento che, di questi tempi, appaiono anche abbastanza ravvicinati alla consegna, ma raramente sono alla consegna o in anticipo.
Così spesso basta la semplice richiesta di un pagamento in parte o in toto alla spedizione per vedere sparire quel buyer britannico o francese che fino a un momento prima era solerte e gentile come solo nei sogni delle relazioni industriali. Tuttavia, è di pochi anni fa una realizzazione da madre di tutte le truffe: tra Langa e Roero un sedicente buyer fece incetta di bancali di ottimi vini pagandoli sull’unghia al momento del groupage. Seguirono ordini ingenti, questa volta con pagamento differito che però si rivelarono perdite secche di prodotto.
All’interno degli italici confini, abbiamo le situazioni border line, già segnalate da Slow Wine (“sto aprendo un nuovo locale, sarebbe così gentile da omaggiarmi di qualche fondo di magazzino e certamente inzieremo a lavorare insieme…”) a cui però si sommano gl’impenitenti dell’ordine non pagato o del campione lucrato. Il problema di queste situazioni è che non appena si dichiara pubblicamente che un ordine non è stato pagato, l’acquirente in questione salda prontamente e minaccia anzi querele, dopo che magari si era negato al telefono per mesi. La legge, insomma, non aiuta chi vive del lavoro di vignaiolo, tutelandolo adeguatamente, perché, inutile ribadirlo, il garantismo funziona se c’è a sostenerlo un sentimento pubblico per la moralità. In caso contrario, del garantismo approfittano il furbo, il furfante e lo sfacciato.
Dunque? Che possono fare i vignaioli? Ci sono tre cose da fare subito!
La prima cosa è parlare con un collega. Innanzitutto, perché si rischia di incorrere nel reato di diffamazione se si offende la reputazione di qualcuno parlando o comunicando a più persone. Parlare con un collega, chiedergli consiglio, domandargli se ha mai sentito nominare il tal dei tali o l’enoteca romana come il bar d’Ivrea, non può integrare il reato di diffamazione, anche se l’altro si sfogasse con lui dicendo che, i locali (del tutto immaginari) di cui sopra, non pagano. Dunque, parlare e se lo si vuole fare pubblicamente, parlare di timori e di rischi, non di persone e di reati. Dire che si è avuta una brutta esperienza con un operatore non è come dire che quell’operatore è un ladro. Anzi, può pure costituire un lecito strumento di pressione affinché chi deve qualcosa, lo compia o lo paghi. Parlare, e vincere la vergogna di essere stati vittime magari di una truffa, per il nobile fine di salvare altri ignari colleghi.
La seconda cosa è non dare campioni gratuiti con facilità, perché ingrassano i furbetti dell’email e via. C’è un modo sobrio anche per fare questo: la prassi, salvo il caso in cui si conoscano il richiedente e la sua serietà, o la sua assenza di interessi commerciali, come nel caso di giornalisti o comunicatori, può ben essere quella di far pagare i campioni dichiarando espressamente che il loro costo verrà integralmente scontato al primo ordine. Se le intenzioni sono serie, è tutto a posto. Se non sono serie, desistono. Se le intenzioni sono serie e poi i vini non sono di gradimento per fare l’ordine, beh, in fondo il vignaiolo non è che non spenda per produrre ciò che viene offerto a titolo di campione, no? Anche in quest’ultimo caso, nessuno ruba niente a nessuno.
La terza cosa consiste nel frequentare i gruppi chiusi sui social network, grazie ai quali i vignaioli si scambiano informazioni di prima mano o pubblicano lettere e richieste varie ricevute. È la chiacchierata da bar 2.0, ma funziona assai bene, perché salvo il caso di un “absolute newcomer”, ci sarà sempre qualcuno che ha già conosciuto il furbo in questione e può mettere in guardia o consigliare prudenza. Un esempio di questo tipo di gruppo utile è “Cantine Unite” su Facebook.
In generale, vale la pena di dubitare di ogni email
• non intestata puntualmente da parte di chi dimostri di non conoscere direttamente i vini dell’azienda a cui si rivolge;
• che sembra provenire da un indirizzo credibile (magari altisonante, come Waitrose o LIDL o ALDI) ma basta controllare bene per vedere che quell’indirizzo NON è quello ufficiale dell’azienda);
• che risulta firmata da chi compare nell’organigramma di un’azienda, ma non con funzioni compatibili con l’acquisto di vini (esiste un Nigel Keen nell’organigramma di Waitrose, ma non fa il buyer, bensì il responsabile degli immobili: l’indirizzo ltdwaitrose.co.uk, che sembra ma non è waitrose.co.uk è stato registrato da un signore che vive a Tolosa, come è facile verificare usando whois.com)
In fondo, se sono in grado di fare i conti con gelo, peronospora, oidio, flavescenza e pure siccità, i vignaioli italiani possono fare 31 e fronteggiare adeguatamente anche questa avversità… post vendemmiale!
“Realizzato nell’ambito del Programma generale d’intervento della Regione Emilia Romagna con l’utilizzo dei fondi del Ministero dello Sviluppo Economico. Ripartizione 2015”